Renata fonte (1951 - 1984)

Pubblicato il 9 maggio 2022 • Biografie

Nasce a Nardo' il 10 marzo 1951, da papà Luigi Giuseppe Fonte, funzionario del Ministero della Difesa e Esercito e mamma Maria Antonia Gaballo e qui vive tutta la sua infanzia, eccetto un breve periodo romano.

Dopo aver vissuto un'adolescenza turbolenta per via della separazione dei genitori, fra l'Abruzzo, dove si trasferisce il padre, e il Salento, dove vive con la madre, frequenta il Ginnasio Liceo Classico di Nardò; attiva nei diversi impegni studenteschi, crea le solidissime amicizie che l'accompagneranno e  sosterranno per tutta la sua brevissima esistenza. Non consegue ancora il Diploma, poiché, a diciassette anni, incontra un sottufficiale dell’Aeronautica Militare di stanza a Otranto, Attilio Matrangola, di ventidue anni, che diventerà suo marito qualche mese dopo (agosto 1968). 

L’anno successivo, dà alla luce la sua primogenita, Sabrina, a Mariano Comense (Co), scoprendo nell’ancora piccola famigliola il calore riflesso che lei stessa emanava e la serenità domestica a lungo agognata. Seguirà il marito in tutta Italia, rinunciando a una professione per accudire le sue bambine; Attilio, invece, si occupa di coordinare funzionamento e manutenzione dei radar negli Aeroporti civili ed è costretto a spostarsi spesso anche all’estero.

In Sardegna, dove Attilio lavora presso la base Nato di Decimo Mannu, nel giugno del 1973, nasce la seconda ed ultima figlia, Viviana, un altro momento di felicità nell’allegra famiglia, nonostante essa sia costretta a spostarsi per anni e ogni volta a ricominciare tutto in un nuovo luogo; Renata sogna di ritornare nella sua amata terra salentina, ma affronta l’ennesimo trasferimento in Sicilia. Qui, in provincia di Catania, dove Attilio lavora presso la base Nato di Sigonella, appena l’età delle figlie glielo consente, da privatista consegue brillantemente il Diploma di Maturità Magistrale e vince, ai primi posti, il Concorso a cattedra successivo. Nel frattempo segue costantemente la crescita delle bambine e lavora saltuariamente per contribuire al bilancio familiare; inoltre scrive racconti, poesie, studia da autodidatta francese e inglese e, dovunque abiti, crea intorno a sé delle sincere e durature amicizie, vicine ancora adesso alle sue figliuole.

Finalmente, nel 1980, evitato il trasferimento a Bagdad, in Iraq, per via del conflitto in corso, il marito viene trasferito all’Aeroporto di Brindisi e lei riassapora l’agognato profumo di casa. Forte degli insegnamenti del prozio, l’avvocato Pantaleo Ingusci, insigne storico mazziniano neretino, comincia a impegnarsi attivamente nella vita del locale Partito Repubblicano Italiano, diventandone Segretario cittadino, e nelle battaglie civili e sociali di quegli anni, iscrivendosi all’Unione Donne Italiane e seguendo le attività del locale Consultorio, occupandosi dei diritti di donne e minori. È fra i fondatori del Comitato per la Tutela di Porto Selvaggio, che era salvaguardato da una legge istitutiva generica e suscettibile di interpretazioni: si impegnerà con dedizione e coraggio, esponendosi, forse più di altri e affiancata dalle attivissime amiche di sempre, sui mass-media e in particolare ai microfoni di “Radio Nardò Uno”, dai quali denuncerà paventate lottizzazioni cementizie.

Nel 1982 si candida alle elezioni amministrative e, dopo anni di assoluta assenza di Repubblicani, è la prima Consigliere e Assessore che il Partito vanti a Nardò, una donna, una delle primissime in politica all’inizio degli anni Ottanta. Dall’Assessorato alle Finanze e al Bilancio a quello alla Pubblica Istruzione, Cultura, Sport e Spettacolo e fino al Direttivo provinciale del P.R.I., diviene anche responsabile per la provincia del settore Cultura dei Repubblicani. 

Frattanto, insegna Francese ed Educazione Psico-motoria alle scuole elementari, studia Lingue e Letterature straniere all’Università di Lecce, pur non trascurando mai la crescita delle figlie, che adora. Affronta un immane lavoro filologico e organizzativo sui romanzi, sui saggi storici e sugli scritti dello scomparso “zio Lelè”, dipinge con una sorprendente varietà di tecniche pittoriche, anche su diversi materiali e scrive una struggente, intensa raccolta di poesie e numerosi racconti, alcuni seri e impegnati, altri divertenti e ironici, un po’ come è lei…

Diventa, suo malgrado, leader di un movimento politico e di pensiero, che aveva intuito come in Salento, fino ad allora considerato un’ “isola felice”, stessero attecchendo metodi e sistemi di cultura mafiosa e che denuncia connivenze e contiguità fra mafia e politica. Quello della nostra mamma è stato un esempio di coraggio civile, perché ha sfidato le logiche del potere, ma è stata lasciata sola e l’isolamento indicizza, pone al centro del bersaglio. Per questa ragione, la sua onestà intellettuale, la sua coscienza democratica, la sua abnegazione al proprio dovere istituzionale, quel senso di caritas che ispira il suo modo di fare politica al servizio degli altri, ad attuare una concreta Res Publica, l’ecologia che ispira tutta la sua vita - nell’amore e nel rispetto dell’ambiente, ma anche nei rapporti interpersonali - incarnano il nemico da colpire e la notte del 31 marzo 1984, al ritorno da una seduta di Consiglio comunale, viene assassinata con tre colpi di pistola: aveva appena compiuto 33 anni.

L’efferato delitto ha immediata risonanza nazionale: il primo omicidio di mafia nel Salento, perpetrato contro una giovane donna, madre, sposa, esempio; in pochissime settimane, gli inquirenti assicurano alla giustizia i vari livelli dell’organizzazione: gli esecutori materiali, gli intermediari ed il mandante di primo livello, tutti condannati nei successivi tre gradi di giudizio. Ma sono davvero tutti qui i colpevoli? Una delle tre sentenze recita: “[…] La Fonte, che occupa un posto che non le sarebbe spettato - è scritto nella parte dedicata al movente dell’assassinio - “stava facendo perdere un sacco di soldi” ostacolando un progetto di speculazione edilizia, la realizzazione di un residence lungo la costa salentina, verso Porto Selvaggio. (Spagnolo) accenna poi all’esistenza di altri cointeressati alla faccenda. Spagnolo, riconosciuto come mandante del delitto, mosso da un risentimento personale si rende strumento consapevole di interessi più vasti. […]”

I magistrati della Corte d’Assise d’Appello, a questo punto, si trovarono davanti a uno “scoglio” insidioso, sul quale le difese tentarono di far “naufragare” l’impianto accusatorio della controparte: Porto Selvaggio era già stato istituito Parco ben quattro anni prima che avvenisse il delitto Fonte. La Legge Regionale è la n°21 del 1980 e per essa si era battuto con passione un vasto fronte ambientalista neretino. Il ragionamento degli avvocati delle difese, che ha trovato immediata sponda nella gran parte dell’opinione pubblica di Nardò, era, pressappoco, questo: la legge dell’’80 dichiarava intoccabile quell’area e, di conseguenza, rendeva impossibile ogni speculazione edilizia. Il movente basato sull’interesse speculativo/politico veniva, così, inevitabilmente a cadere. Un’obiezione, questa, che la sentenza sul caso Fonte “smonta” su due versanti, fornendo una risposta sul piano generale e una su quello particolare. Risposta generale: “ […] L’obiezione che pure si è fatta con molta insistenza e relativa all’impossibilità concreta di “sfruttare” Porto Selvaggio perché Parco Naturale, non tiene conto delle “italiche risorse” e della incredibile capacità di tanti amministratori nostrani e delle loro cricche corporative di portare avanti piani di lottizzazioni, insediamenti urbanistici, creazioni d’interi villaggi nonostante le innumerevoli leggi, leggine, decisioni ad alto livello, prese di posizioni, movimenti d’opinione, interpellanze parlamentari, che solo teoricamente hanno cercato di porre argine a tale fenomeno […]” Ma in quel 1987 i giudici approfondiscono e la risposta alle obiezioni difensive da generale diviene particolare e da storica si fa tecnica: “[…] Si è parlato di Porto Selvaggio, ma il riferimento è chiaramente idoneo ed inteso ad individuare solo genericamente una località - continua la sentenza - si dimentica proprio tutta la diatriba che sorse intorno alle “zone di rispetto”, diatriba che iniziatasi nel novembre del 1983 continuò fino al giugno del 1984 allorché venne emanata la legge regionale per Porto Selvaggio [,,,]” Il riferimento è evidente: la disposizione legislativa del 1980 aveva istituito il Parco, attribuendogli  la generica, “fumosa” aggettivazione di  Naturale Attrezzato e lo aveva ambiguamente “perimetrato”. Nei quattro anni successivi, però, si erano “giocate” due importantissime “partite”: la prima sul Piano di adeguamento, che, tra gli altri provvedimenti, compensava l’inedificabilità dei terreni inclusi nel Parco con altre cubature in zona; la seconda, sui confini effettivi del Bene paesaggistico tutelato, si era conclusa solo il 4 giugno 1984, con la delibera della Giunta Regionale n° 5012, che aveva varato il Piano di Utilizzo della zona, distinguendo tra un Comparto A di 231 ettari, qualificato come “parco” ed un Comparto B di 193 ettari, individuato come “futuro ampliamento”. «  […] E sono proprio questi i momenti - prosegue la sentenza - in cui era necessario avere in Comune una “persona di fiducia”, non certo la Fonte che pur senza tanti clamori s’interessava proprio al Comitato per la tutela di tale zona, e che già da allora temeva manovre speculative su quella zona che doveva restare patrimonio collettivo di tutti. Ecco dunque che lo Spagnolo è un passaggio obbligato per chi intendesse operare in quella direzione, ed è per questo motivo che l’imputato, probabilmente facendo così anche gli interessi di altri, si decise a liberarsi per sempre del suo scomodo avversario. Questo è il movente - concludono i giudici - esso ci viene dalle stesse parole dell’interessato. L’imputato quindi maturò la sua decisione criminosa, animato certamente da spirito di vendetta e comunque per rancore contro chi lo aveva privato del “suo” posto al Comune, ma soprattutto perché solo attraverso la eliminazione fisica della Fonte egli poteva attuare o favorire le mire speculative di chi, come lui, da tempo aspirava a “mettere le mani” su Porto Selvaggio. […] ».

Quegli imprenditori “dalle mani avide” non sono mai stati individuati, forse il “motore immobile” del delitto. La verità processuale - come noto e universalmente accettato - non è assoluta ma è la sola accertata di cui disponiamo, una risposta chiara ed inequivocabile: Renata Fonte è stata uccisa per aver difeso Porto Selvaggio dalla speculazione edilizia. In quegli anni si erano decise lottizzazioni speculative e l’assessore Fonte era un ostacolo a quelle logiche spartitorie; quello di Renata Fonte è il primo delitto politico-mafioso nel Salento, verità ancora scomoda da accettare, come se selezionare una classe politica per agevolare gli interessi illeciti di qualche oscuro ma ben identificabile potere non sia mafia. Proprio per questo, ancora oggi, per il mondo istituzionale in primis, risulta scabroso ricordarla, perché darne memoria equivale a porsi domande, ad ammettere connivenze; qualcuno continuava a pronunciare il suo “Sì” a qualcosa a cui Renata aveva detto “No!” Il suo estremo, inarrivabile sacrificio, però, e le tante battaglie ambientaliste che esso ha generate o ispirate hanno determinato - nel 2006 - una Regge regionale che tutela concretamente e senza infingimenti il Bene paesaggistico e culturale che il Parco incarna. Porto Selvaggio è oggi una delle dieci spiagge più belle d’Italia, una dimensione che esprime il suo genius loci, un territorio in cui si ritrova l’energia, la bellezza, l’ineffabile magia di Renata; nell’odore dei pini assolati, nel cicaleccio intenso fra gli alberi e fra le onde del mare che si infrangono sulla bruna scogliera s’ode la storia di Renata e, ancora viva e vibrante, la sua voce.


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